Ovvero resoconto della Liberazione di Cittadella 25/29 Aprile 1945
A settanta anni dagli eventi, ho ritenuto opportuno rendere pubbliche le memorie scritte da mio padre, Dr. Guerrino Viotto, uno dei protagonisti dei convulsi momenti della Liberazione di Cittadella. Con il suo scritto, mio padre volle rendere omaggio ai veri "eroi" che salvarono Cittadella, e credo che noi tutti Cittadellesi dovremmo fare altrettanto.
Franco ViottoCittadella, 22 Aprile 2015
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Con queste righe intendo narrare la "vera" storia della salvezza di Cittadella dalla 2° Divisione Corazzata Tedesca che si presentò nel pomeriggio del 28 aprile 1945 a Porta Padova.
Con la mia narrazione desidero soprattutto soddisfare ad un obbligo di coscienza verso il protagonista di quella giornata cruciale in cui si decisero veramente le sorti del nucleo urbano di Cittadella, che era segnato sulla carta militare tedesca, semplicemente come il fortino n. 5, sul quale dovevano confluire, per l'importanza strategica del suo nodo stradale primario, diverse colonne corazzate.
Nella sua modestia, questo cittadellese, non cercò mai riconoscimenti ufficiali e tacque per anni sulla parte da lui avuta nei fatti che qui esporrò, pago, egli mi disse, di aver già ricevuto come gran premio "la vita" mentre tanti erano morti e tanti avevano le carni afflitte da mutilazioni e da ferite.
La mattina del 25 Aprile captai le prime notizie insurrezionali da "Radio Milano Libera " e feci la mia offerta formale di collaborazione al Comitato di Liberazione Nazionale locale. Per tutto il giorno 25 nessun movimento si era ancora verificato nel presidio tedesco. Le prime avvisaglie di cedimento si ebbero però il giorno 26. Le strade erano piene di gente eccitata. In Piazza, proprio sotto il Leone di San Marco, trovai Mons. Emilio Basso che teneva per braccio due soldati tedeschi, che, benché non ci vedessimo da mesi, mi affidò, con mio sconcerto ed irritazione.
Intanto le cose stavano precipitando e bisognava agire di conseguenza. Il Comando tedesco, avute garanzie che non sarebbe stato disturbato, si apprestava a partire sul momento, ed infatti i nazisti cominciarono subito a defluire verso il Brennero.
Mentre ciò avveniva, mi trovavo col Sig. Giovanni Bragagnolo ad una finestra della mia casa in Borgo Bassano. Nel vedere che i tedeschi, passando sotto di noi, se ne andavano a tutta birra su macchine scoperte, egli mi disse: "Buttiamo una bomba?" "Sei matto !!" gli risposi e gli fermai la mano.
Pochi attimi dopo, all'altezza del molino del sig. Lorenzo Pierobon, in Via Postumia, veniva aperto il fuoco contro di loro. Essi risposero con le armi pesanti e fu mortalmente ferito il partigiano Giuseppe Castellan.
Sulla sera del 26, come da precedenti intese, si riunivano nell'abitazione del sig. Camillo Carcereri, oltre al sottoscritto, i sigg. Romolo Zanon, Antonio Benella, Guglielmo Brotto ed il prof. Antonio Pettenuzzo.
Ci mettemmo d'accordo di occupare il Municipio al mattino successivo. Durante la notte il Prof. Pettenuzzo dormì a casa mia, non fidandosi di tornare nel suo alloggio in Borgo Treviso.
L'occupazione del Municipio avvenne il mattino del 27 aprile, era di venerdì. La squadra operativa era pertanto così composta: Prof. Antonio Pettenuzzo (Comandante della Piazza}, Sig. Camillo Carcereri (Sindaco designato dal C.L.N.), Dr. Guerrino Viotto (questi primi tre in rappresentanza della D.C.), Sig. Romolo Zanon (Componente del C.L.N.), Sig. Antonio Benella (Vicesindaco designato) e Sig. Guglielmo Brotto (questi ultimi per il P.C.I.).
Entrati in Municipio prendemmo possesso dell'ufficio del Podestà che era allora il Sig. Costante Rebeschini. Tutto avrebbe dovuto svolgersi secondo i piani prestabiliti ma ciò non avvenne perché il Sig. Camillo Carcereri si rifiutò di assumere la carica in quel momento perché, come egli disse, non c'erano sufficienti garanzie di sicurezza; infatti non erano ancora giunte le truppe alleate ed egli non se la "sentiva" di fare il Sindaco in tale situazione, e che per intanto, necessitava un uomo che avesse ben altre caratteristiche che le sue, che ci voleva un organizzatore, uno che si sapesse imporre, ed indicava me come la persona adatta "per capacità ed energia" ad assumere la carica.
Tutti noi cademmo dalle nuvole: io poi ignoravo del tutto quali fossero state le precedenti intese del C.L.N. per la divisione delle cariche.
Insomma si era creata un'atmosfera poco simpatica di sospetto e di incertezza, proprio nel momento cruciale. Poiché il Carcereri non recedeva assolutamente e cominciava ad alzare il tono della voce, ci fu un breve scambio di idee fra Pettenuzzo, lo Zanon ed il Brotto e dopo di ciò fui invitato ad aderire alla richiesta del Sig. Carcereri.
Da tenere conto che io ero legalmente un Ufficiale repubblichino disertore e per tale semplice fatto più soggetto di tutti gli altri ad eventuali rappresaglie tedesche e fasciste; la pena prevista era quella di fucilazione senza processo.
Quasi a sottolineare le apprensioni del Carcereri, da Porta Treviso entravano fischiando delle pallottole di fucile, perché all'altezza della Scuola Media era in corso uno scontro con elementi tedeschi, comandati da a un Maggiore, che, pur circondati, non volevano arrendersi. Dopo la cattura e l'apparente disarmo della squadra, il Maggiore teneva ancora nascosta addosso una pistola che gli fu tolta dal Sig. Berto Munegato che lo aveva perquisito.
In Municipio intanto, io, senza farmi ulteriormente invitare, mi sedevo sulla poltrona podestarile e tutti gli altri uscivano frettolosamente dalla sala e scendevano le scale. Non sono mai stato in grado di appurare quale sia stato il motivo di tale comportamento, ma il fatto rimane così come l'ho descritto ed io non posso che registrarlo sic et simpliciter. Dopo un po', senza che io mi muovessi, i miei cinque grandi elettori ritornarono sui loro passi.
Mentre ciò avveniva, nessuno degli impiegati comunali si era fatto vivo, ma tutti erano al loro posto di lavoro: quel posto che avevano fino allora conservato perché (nella quasi totalità) avevano dato, a giudizio dei loro superiori, non indubbie prove di collaborazione al regime repubblichino. Situazione pertanto assai fluida e che un nonnulla poteva rovesciare con immediate spiacevolissime conseguenze.
Io non posso fare qui il processo alle intenzioni, ma c'era un precedente: un impiegato comunale, il sig. Alberto Todeschini, era rimasto mortalmente ferito in un incontro con una squadra di partigiani, colpito con le armi in pugno (il Todeschini morì senza rancori e perdonando al suo uccisore e questo per la verità ed a suo onore).
Noi, in quel momento, non potevamo sapere come avrebbero reagito. Alcuni di loro furono poi sottoposti a giudizio di discriminazione; qualcuno ci rimise il posto ma altri furono riassunti. Per un certo tempo li custodì nelle locali carceri il sig. Gino Baggio, poi messo comunale.
Un doppio uscio ci divideva dall'ufficio del Segretario Capo Sig. Silvio Sacchetto, da sempre fascista convinto. Io premetti il campanello ed egli comparve nella stanza: era piuttosto pallido ed un po' curvo, ma premuroso. Gli spiegai la situazione e gli dissi che il lavoro negli uffici doveva continuare come se nulla fosse avvenuto, e gli dettai un ordine di servizio interno che avrebbe dovuto essere firmato, per accettazione, da tutti gli impiegati. Quando egli tornò col testo dattiloscritto, gli dissi di passarmi il timbro del Comune. Feci una prova su di un foglio e vidi che il timbro (fino allora regolare) portava, soprastante allo stemma comunale, il simbolo del fascio littorio. Io allora dissi che il timbro non andava bene per quella cerimonia, e gli ingiunsi di purgarlo sul momento, e che l'ordine era tassativo anche per tutti gli altri timbri consimili. Il Segretario Capo prese una lametta e grattò il fascio finché non scomparve. Allora timbrai e sottoscrissi il primo ordine di servizio: il primo della nuova era amministrativa di Cittadella.
Dopo il Segretario, ad uno ad uno, vennero tutti gli altri impiegati e tutti firmarono: in particolare il Cav. Costantino Viale, che era commissario del fascio di Cittadella, ci pregò di accettare la sua collaborazione per quanto avessimo avuto di bisogno nei rapporti coi fascisti locali.
Mi preoccupai immediatamente delle scorte viveri per la popolazione, per l'ospedale e per gli istituti di beneficenza, e chiamati i preposti ai vari enti, firmai gli ordini di prelievo necessari e presi nota delle rimanenze. Eravamo al lumicino.
Fra i molti altri che mi venivano richiesti, firmai anche un salvacondotto per il Dr. Paolo Favaretti che era stato, a suo tempo, Podestà di Cittadella. Il timbro era sempre quello purgato. Per ragioni di opportunità ed a dimostrazione che non ritenevo di essere l'unico depositario del potere amministrativo, facevo firmare o controfirmare anche agli altri componenti della giunta esecutiva che mi attorniavano.
Dopo aver emanato le prime impellenti disposizioni, scesi in piazza e mi incamminai verso casa. A Porta Bassano si sparava. Al posto di guida di un camion officina venne ucciso un Tenente tedesco, un ingegnere specializzato in teleferiche. Sembra che la pallottola mortale sia uscita dal moschetto del sig. Strapazzon, un operato della SADE poi emigrato. Poi altri se ne attribuirono il merito però allora il Sig. Strapazzon era l'unico ad aver paura di averlo fatto, per le temibili conseguenze. Fra i molti presenti al fatto o che parteciparono alla sparatoria, ricordo il Sig. Emanuele Tisbo, il Cavaliere di Vittorio Veneto Sig. Alfredo Fortuzzi, l'ing. Danilo Pozzana.
Bisogna riandare a quei tempi per capire cosa voleva dire allora avere fra le mani il cadavere di un Ufficiale tedesco: molti rimasero sgomenti. Era necessario far subito sparire le tracce. Il camion officina aveva preso la curva e si era fermato strisciando sul muro della casa di mio zio Sig. Agostino Miotti. Ci mettemmo tutti al lavoro. Il morto fu nascosto sotto delle frasche, in un posto dove non batteva il sole, sullo spalto di Porta Bassano, e l'automezzo, molto pesante, fu in tutta fretta spinto dentro al giardino del Dr. Umberto Sartorelli e mimetizzato fra gli alberi.
Le strade ora erano piene di gente ed in tutti c'era un grande fervore per apprestare immediatamente le difese. Nella previsione di doversi arroccare, i tedeschi avevano fatto preparare, con le misure esatte, dei grossi tronchi di platano, sacchetti di sabbia e cavalli di frisia, da sistemare alle quattro Porte di Cittadella.
Il materiale era stato portato sul posto, pronto per l'impiego, dalla Ditta Mazzocchin. Fu mandato a chiamare il titolare della Ditta (forse si presentò spontaneamente, ma non ricordo con precisione) che disponeva della attrezzatura adatta per la posa in opera. Venne, col suo largo sorriso, il Sig. Antonio Mazzocchin, ex sergente di Mussolini e, a furia di "Forza Bersaglieri", Porta Bassano in un attimo fu sistemata. Analogamente avveniva con le altre porte, con la collaborazione di molti cittadini che lavoravano febbrilmente e con assoluta precisione. Ricordo, a Porta Vicenza, il Sig. Pietro Tessarolo ed il Sig. Angelo Pasquale ed i loro dipendenti.
Mentre andavamo verso Porta Padova per vedere a che punto fossimo, col Comandante la Piazza ed altri, ricordo con precisione che ci imbattemmo nel Rag. Guido Diotto il quale chiese di collaborare e di avere un'arma. Gli fu negato con male parole, mentre io pensavo che, specie in quel frangente, non si dovevano fare discriminazioni, anche per la sincerità e spontaneità con la quale l'offerta veniva fatta.
Prima che scoccasse mezzogiorno tutte le difese perimetrali di Cittadella erano sistemate ed incutevano, almeno a vederle, certo rispetto.
Mentre erano in corso i lavori, una consistente colonna tedesca con automezzi, biciclette e carriaggi imboccava Riva del Grappa e chiedeva il permesso di passare senza essere molestata. Non c'era motivo che l'autorizzazione venisse negata anche perché non c'erano i mezzi per contrastare il passo della colonna e non avevamo alcun interesse che si venisse a sapere del Tenente morto qualche ora prima. Il Comandante della colonna volle però degli ostaggi. Sicuramente ci andò un certo Sig. Calcaleoni e, se ben ricordo, lo stesso Sig. Antonio Mazzocchin ed il Sig. Giuseppe Guerra. Giunti all'altezza di Belvedere di Tezze, cioè al limite della nostra, chiamiamola così, giurisdizione, gli ostaggi vennero lasciati liberi.
Nel pomeriggio il tempo si guastò e piovigginava ed io giravo con un telo da tenda infilato addosso ed un enorme elmo tedesco in testa. Nella casa del Sig. Avogadro, già sede delle truppe repubblichine, era stata installata una attrezzatissima mensa, magistralmente diretta dal Cav. Domenico Calocchio, che di cucina doveva intendersene parecchio. In quelle ore non ci furono novità di rilievo, ma la gente che nella mattinata animava le strade era letteralmente sparita: non circolava più nessuno. In Municipio Il Segretario Capo Sig. Silvio Sacchetto non si fece più vedere (credo fosse già stato messo in prigione) e fu da allora in avanti sostituito, per mesi, dal Vicesegretario, un siciliano minuto e mingherlino, sempre vestito di nero e che la gente aveva soprannominato "Carbonella", il Rag. Calogero Ferrauto.
Nell'Ufficio del Segretario Capo furono pertanto ammassate molte casse di sigarette e di liquori, di preda bellica, ed il Comandante la Piazza ebbe finalmente il suo daffare ad amministrare e somministrare tale preziosissima merce.
Nella mattinata del 28 aprile (era di sabato) sbrigai in Municipio le pratiche relative ai buoni di prelievo viveri e firmai qualche salvacondotto. Si commentavano le notizie dello sfaldamento del fronte che man mano arrivavano. II Sig. Zanon era stato sostituito dal Sig. Alberto Baggio (detto il Conte Baggio). La sua bonomia era in netto contrasto con quanto andava conclamando il Sig. Guglielmo Brotto che voleva assolutamente impiccare tutti i fascisti. Era quasi un intercalare, ed a mia impressione diceva sul serio, tanto che, quando si seppe quello che era capitato ai gerarchi fascisti ed in particolare a Mussolini ed alla Petacci, egli fu al colmo della gioia. Non potei non dire che Mussolini ci sarebbe forse servito molto più da vivo. Fui guardato piuttosto male.
Verso mezzogiorno a Porta Bassano si verificò un fatto piuttosto serio. Io ero a casa di mio zio Sig. Agostino Miotti, quando una colonna tedesca, composta di molti elementi, comparve sulla strada proveniente da Nord. Dal torrione fu aperto il fuoco, credo da Bruno Conz, con una mitragliatrice pesante, sostenuto dal basso da fucilieri appostati lungo le spallette del porte. I tedeschi risposero subito con impressionante
precisione con fucili Mauser, impiegando anche un pugno corazzato anticarro che sgretolò la prima arcata a sinistra di Porta Bassano. L'effettiva solidità delle nostre difese perimetrali si dimostrò una pura illusione ottica. Non avremmo potuto assolutamente sostenere un serio attacco proveniente da forze organizzate con adeguati mezzi di offesa. Alla risposta tedesca non ci fu una contro risposta, e fu per noi somma fortuna perché ci avrebbero fatto fuori! I tedeschi se n'andarono per Riva del Grappa senza dar fastidio.
Era tornato il bel tempo ed era piuttosto caldo: il centro di Cittadella era deserto, tutte le saracinesche dei negozi erano abbassate, le imposte sbarrate ed un silenzio impressionante incombeva sulla città. Erano circa le tre quando raggiunsi Porta Padova e vidi una figura umana quasi librata a mezz'aria mentre agilmente superava volteggiando i tronchi di platano posti di traverso all'arcata centrale della Porta. Indossava un maglione bianco di lana, di quelli col collo alto. Si stagliava nettissima in piena luce, incorniciata dalla prima arcata della Porta, quella con l'orologio. Teneva tra le mani un mitragliatore "Breda". Il silenzio era solenne. Lo riconobbi all'istante: il mio caro amico Carmelio Conz, fidanzato di mia cugina Clara Miotti. L' avevo incontrato nella tarda mattinata in Piazza. Erano parecchi mesi che non ci vedevamo ed era appena uscito dalla carceri di Padova dove era rimasto per tre mesi in consegna alla Gestapo. Proprio quella mattina era stato liberato e si era precipitato a Cittadella percorrendo quasi tutta la strada a piedi. Mi pare di ricordare che proprio quella mattina ci fosse stata a Padova la firma della resa nazifascista di tutto il Veneto. A capo della rispettive delegazioni c'erano da una parte mio cugino l'Avv. Gavino Sabadin e dall'altra il Commissario per il Veneto della R.S.I. Giuseppe Pizzirani, da me assai ben conosciuto e che voglio qui ricordare quando, essendo egli Federale di Padova, rimosse dalla carica, dalla sera alla mattina, un Podestà di Cittadella, ottimo amministratore degli affari suoi ma non del Comune.
Ma torniamo a Carmelio Conz: lo rivedevo ora e mi apprestavo a chiamarlo per chiedergli cosa succedesse. Scavalcai la prima palizzata e mi
resi conto che stava accadendo qualcosa di inconsueto. Vidi Carmelio affrontare col mitra spianato un maresciallo tedesco pure armato di fucile mitragliatore, e che era penetrato nello spazio fra la prima e la seconda arcata. Sotto la minaccia di Carmelio che avanzava con decisione, manovrando il mitra con gesti imperiosi, il maresciallo rinculò oltre il cavallo di frisia che era all'ingresso delle prima arcata. Immagino gli occhi di Carmelio, che io chiamavo già prima scherzosamente "sergente di ferro". Era veramente l'uomo adatto nel posto adatto.
Al crocevia era piazzato, in posizione di tiro, con i serventi pronti, un camioncino anticarro tedesco. Ai lati delle ponte c'erano una ventina di tedeschi col ginocchio a terra ed il fucile puntato; sotto il portico dalla parte di Favaretti intravvedevo altri armati.
Il maresciallo si fermò subito oltre il cavallo di frisia ed in cattivo italiano disse: "Perché tutto questo?" e fece l'atto di rimuovere l'ostacolo; ma Carmelio, sempre minacciandolo col mitra gli rispose: "Noi non volere guerra; noi non volere né tedeschi né inglesi!"
La rabbia con la quale rispondeva era ancora più accentuata da quella sua voce di tono aspro e dall'aspetto fisico, ed il maresciallo rinculò fino alla metà del ponte, imitato dai soldati appostati sulle spallette. Disse chiaramente che voleva parlamentare ed invitò Carmelio ad uscire allo scoperto.
Senza alcuna esitazione l'intrepido Carmelio acconsentì; egli era ormai solo: solo col suo coraggio alla mercé di un intero reparto tedesco con i fucili spianati ed il cannone in punteria.
Il maresciallo era fermo al suo posto e non accennava ad avvicinarsi al Conz che era immediatamente oltre il cavallo di frisia, così per qualche minuto. Poi i due avversari si avvicinarono guardinghi, finché non si trovarono a circa un metro di distanza, sempre coi rispettivi mitra in posizione d'impiego.
Non si sa come, ma ci fu all'improvviso un mutuo accordo e quasi automaticamente essi deposero le armi a terra. I soldati si erano messi intanto al di là del crocevia, oltre il cannone.
Si intavolarono allora le prime trattative. Il tedesco disse che essi volevano entrare a Cittadella mentre Carmelio indicava che potevano proseguire per la circonvallazione assicurando che nessuno avrebbe ostacolato il loro passaggio.
L'atmosfera, prima assai tesa, cominciava a rasserenarsi. Io avevo seguito tutta la scena dietro la palazzata centrale, ma poi ero salito sulla torretta dell'orologio e qui trovai appostati, con il fucile mitragliatore, Lino Mascia e Mario Bonifazi che quasi nulla avevano visto di quello stava accadendo di sotto. Infatti dalle finestrelle si aveva la visione diretta solo oltre il ponte dove era piazzato il cannone.
Poco prima mi si era affiancato Berto Munegato e mi pare di avere intravisto Gino Scalco, che doveva cadere il giorno dopo con una pallottola in fronte, mentre tentava di soccorrere Nani Petrina che era rimasto ferito durante una scaramuccia coi tedeschi.
Nessuno di noi ebbe la percezione esatta del grave pericolo che incombeva su tutta la città. Vedevamo dei soldati con un cannone e tutto avveniva come nelle sequenze di un film muto. Beata incoscienza!
Passò così del tempo che ci parve assai lungo e si fece avanti l'effettivo comandante di quella che era la punta d'avanguardia di una intera Divisione Corazzata Tedesca nel pieno del suo armamento e della sua efficienza. Questo Tenente, di sua iniziativa, aveva detto che voleva incontrarsi col titolare della Ditta Antonio Pasquale, col quale prima della guerra era stato in rapporti di affari. Si trattava del Tenente Hulm, dipendente di una fabbrica di essenze di liquori di Francoforte sul Meno.
Il Sig. Angelo Pasquale uscì dal porticato nelle mura di Riva Pasubio e giunse al luogo convenuto lungo la Riva del Macello.
Intanto Carmelio stava bluffando grosso: aveva detto che a Cittadella erano asserragliati circa duemila partigiani pronti ad ingaggiare battaglia, che in mano nostra avevamo dei prigionieri tedeschi (vero) e che l'aviazione alleata, già avvisata, era pronta ad intervenire.
Era giunto il sig. Angelo Pasquale e, dopo i convenevoli d'uso, il Tenente Hulm gli chiese, sulla parola di ditta seria, se quanto diceva Conz rispondeva alla Verità. Il sig. Pasquale annuì e, per soprammercato, aggiunse che Berlino era caduta e che l'esercito tedesco era in sfacelo anche in Germania. Il Tenente Hulm si esprimeva in francese e disse che essi avevano l'ordine di occupare Cittadella, e dispiegando una carta davanti al Pasquale, gli mostrò che la nostra posizione era contrassegnata come fortino nr. 5 e che qui dovevano confluire altre forze corazzate provenienti da Vicenza. Forse era in parte spiegato il mistero della colonna proviene da Nord. C'era anche un termine per l'occupazione, le ore 17.
A questo punto intervenne il Sig. Osvaldo Faleschini, capo officina della ditta Ing. Pasquale Fabris, il quale, esprimendosi in corretto tedesco, ripeté quanto avevano già sostenuto i Sigg. Conz e Pasquale. Il Tenente sembrò allora convincersi, ma disse che egli non poteva decidere nulla essendo ogni decisione riservata al Sig. Generale Comandante che si trovava a circa un chilometro più indietro. Intanto però come dimostrazione di buona volontà da parte nostra, dovevamo consegnare i prigionieri tedeschi che detenevamo.
Intanto si erano fatte lo quattro ed a Porta Padova, e negli appostamenti ricavati nella parte alta dei giardini pubblici, un certo numero di nostri armati (raccogliticci) si era allogato a difesa. Non c'era nessun clamore e tutti dimostravano una calma ed una imperturbabilità olimpica che deve avere grandemente impressionato i nostri avversari.
Lo stesso Carmelio mi comunicò il desiderio del Tenente tedesco. Allora mi recai personalmente, di corsa, alla caserma dei Carabinieri dove erano
rinchiusi gli ostaggi tedeschi, compreso quel Maggiore che era stato catturato a Porta Treviso.
In Caserma trovai Padre Oddone Nicolini: circostanza imprevedibile e che si dimostrò poi di estrema importanza. Infatti i prigionieri tedeschi non ne volevano sapere di esser riconsegnati ai loro camerati e tutti, Maggiore compreso, si misero a tremare e piangere. Padre Nicolini li confortò e li esortò ad ubbidire. Mi misi a fianco di Padre Oddone che aveva rivestita la cotta bianca; sopra di essa aveva una grande stola violacea ed in capo il suo berretto nero calcato di sghimbescio, alla brava.
Dietro di lui, da sembrare un gregge di pecore, a capo chino, venivano i prigionieri tedeschi, il cui primo era attaccato alla cotta. La piccola colonna giunse a Porta Padova. Qui Padre Nicolini, sopravanzando tutti, uscì allo scoperto con passo deciso e attraversò tutto il ponte, con le braccia allargate, nel medesimo gesto di Pio XII sulle rovine di Roma bombardata, e ripetendo e scandendo la parola "Pace! Pace! Pace!" avanzò verso i tedeschi. Una scena indimenticabile, maestosa, sacrale. Mi venne spontaneo il paragone di Leone Magno che, armato della sola Croce, sfidava e domava le orde di Attila.
L'arrivo di Padre Nicolini provocò in tutti noi una grande gioia ed un senso di grande fiducia. La sua persona era anche una garanzia per i tedeschi ed il Tenente disse che ora bisognava avvertire immediatamente il Generale Comandante dell'avvenuto approccio, ed invitò uno dei principali parlamentari ad accompagnare due tedeschi che sarebbero andati a rapporto.
Carmelio si offrì immediatamente e, poiché era disarmato, con un gesto imprevedibile staccò una bomba a mano dalla cintola di un tedesco, cosa che lasciò alquanto interdetti i tedeschi che però non reagirono.
In bicicletta i tre raggiunsero Ca' Nave dove erano attestati in lunga teoria Panzer e Semoventi cingolati coi cannoni in punteria. Carmelio era in grado di valutarne la forza, avendo fatto parte del Quartier Generale della
nostra divisione corazzata "Ariete" al comando del Generale Raffaele Cadorna.
Su tre macchine scoperte si trovavano gli Ufficiali di Stato Maggiore della Divisione e fra essi il Generale al quale Carmelio fu presentato. I due accompagnatori tedeschi fecero cenno che il Conz aveva una bomba alla cintura, ma il Generale non vi fece caso. Il Generale volle che Carmelio gli indicasse sulla carta topografica, che aveva intanto distesa, quale strada si dovesse percorrere per non attraversare il centro di Cittadella. Egli lo fece senza esitare e disse che al crocevia di Porta Padova lo stava aspettando un sacerdote col quale avrebbe potuto più ampiamente trattare.
Carmelio intanto si era reso perfettamente conto, da competente, quale fosse l'immane pericolo che gravava su Cittadella. Tutta la truppa era al suo posto di combattimento e l'allineamento dei mezzi si perdeva oltre San Donato, come si poteva vedere dal rialzo della ferrovia.
Il Generale si mosse con le tre vetture gremite di Ufficiali ed a Porta Padova ebbe luogo l'incontro con Padre Nicolini e gli altri. Erano le 17.
Fu ripetuto il bluff dei duemila partigiani ecc. ecc. e fu pertanto raggiunto un accordo che prevedeva i seguenti tre punti:
- Passaggio per la circonvallazione con garanzia assoluta di non essere attaccati;
- Consegna di tutti i prigionieri tedeschi in nostre mani;
- Consegna di una bicicletta. (Chi ha vissuto in quei tempi sa che questa era una mania dei tedeschi, ed il terzo punto, anche se oggi può sembrare futile e sproporzionato, allora era assai importante.)
A prelevare la bicicletta andò personalmente Carmelio che la requisì alla Signorina Calcaleoni, una ex-repubblichina, mentre i prigionieri che erano rimasti in attesa dentro Porta Padova furono consegnati all'istante. La loro depressione era giunta all'estremo, ma noi non potevamo far nulla per loro.
Si susseguirono piccoli frammentari episodi e ci furono altri sporadici tentativi di isolati soldati tedeschi che volevano penetrare entro la cerchia murata con le più varie scuse; uno in particolare voleva a tutti i costi dell'acqua da bere, ma chissà perché voleva di quella dentro le mura. Ne fu dissuaso dal Dr. Orazio Sarto che gli disse che l'acqua era inquinata.
Ormai parecchi cittadini erano usciti; credendo che ogni difficoltà fosse superata, mentre Padre Nicolini conversava ancora animatamente col Generale che era attorniato dai suoi Ufficiali.
Il Sig. Angelo Pasquale aveva intanto fatto giungere una botte di vino, alla quale ne seguì poi un'altra, e si era provveduto a far sfornare del pane fresco: arrivarono anche dei salumi e tutto veniva distribuito, abbastanza disciplinatamente, nei pressi del così detto "rabutto" fatto costruire dal Podestà Prof. Gustavo Zambusi, illustre epigrafista e cultore delle cose belle di Cittadella.
Carmelio non aveva fatto cenno con nessuno di quello che aveva visto a Ca' Nave ed oltre. Nemmeno Padre Nicolini era stato informato: tutti ritenevano che tutto fosse concentrato ormai davanti a Porta Padova.
Erano circa le 18 quando si verificò un fatto imprevisto che poteva concludersi in una vera strage.
Una vettura con degli Ufficiali tedeschi arrivò velocissima da Riva Macello e si fermò al crocevia. A bordo, fra i tedeschi, c'era il Sig. Ivo Guerra. Seguì un concitato scambio di frasi fra gli Ufficiali della vettura ed il Generale e si poté afferrare che i tedeschi erano stati attaccati verso Fontaniva.
Tutto sembrò precipitare. Il Generale, con gli occhi di fiamma, si alzò di scatto dal sedile della autovettura ed in tono molto brusco ed aspro disse rivolgendosi a Padre Nicolini ed a Carmelio "Uno di voi due con me a Fontaniva. Molti partigiani, nostre truppe non potere passare fiume".
Accadde un mezzo trambusto ed il Sig. Ivo Guerra, che prima era sparito e poi era ricomparso, si fece avanti e disse che egli era disposto ad offrirsi. Il suo gesto era piuttosto impegnativo. Era già salito sulla macchina, ma sua
moglie, che era presente, lo afferrò per le spalle e piangendo convulsamente lo tirò giù fra il commosso stupore di tutti.
D'un subito si fece il vuoto e rimasero davanti al Generale solo Padre Nicolini e Carmelio. La scelta era ormai ristrettissima. Sembra che le parole esatte pronunciate in quell'occasione fossero queste: disse Padre Nicolini: "Mi no, quei me copa, i ne copa!", e Carmelio, di rimando: "Vao mi! Vao mi!"
La grande decisone era presa, tanto più encomiabile poiché, a differenza di Padre Nicolini, egli sapeva perfettamente quale tremendo pericolo incombesse su Cittadella poco oltre le Officine Facco. Una rottura delle trattative coi tedeschi avrebbe significato distruzione e morte; noi saremmo stati sopraffatti in qualunque caso: lo stesso ipotetico intervento dell'aviazione alleata avrebbe portato ad un bombardamento a tappeto con catastrofici effetti, peggio ancora se effettuato nella notte ormai incombente.
In quello stesso momento in cui la vita di Carmelio Conz veniva posta in gioco con irrazionale impulsività, le probabilità che la sua sublime offerta servisse veramente a qualcosa dipendeva da eventi che noi non potevamo assolutamente dominare o controllare.
Come si sarebbero comportati i partigiani di Fontaniva?
Il Sig. Angelo Pasquale si precipitò a casa sua per telefonare da Crivellaro (detto Bacù) dov'era il Comando partigiano di Fontaniva, mentre lo stesso Carmelio incaricava la Signorina Mina Petrina di correre avanti in bicicletta con l'ordine di sospendere il fuoco e di sparire.
Si attese qualche tempo perché ci fosse la conferma che l'ordine era giunto a destinazione. Il giorno era ormai al declino. Carmelio si rifiutò di salire in macchina ma chiese ed ottenne di precedere le vetture sul sellino posteriore di una motocicletta tedesca.
Pare, ma non ne sono sicuro, che mentre si era in attesa, nella stradella del dr. Tiziani, sia stata eseguita la sentenza capitale a carico di un soldato tedesco anziano.
La piccola colonna si mosse e rapidamente raggiunse Fontaniva. Carmelio mi disse che a mezza strada aveva incrociato la Petrina che gli aveva fatto cenno che tutto andava bene. Per la strada delle casette arrivarono in riva al fiume Brenta, nella località dove esisteva la passerella che però era stata sbriciolata dai bombardamenti. Si era fatto buio. In lontananza, sulla riva opposta si vedevano il lampeggiare di qualche cannonata ed il bagliore di incendi sparsi.
Il Generale disse: "Quanto alta acqua?" Non si vedeva nulla, ma l'acqua non era certamente alta e Carmelio bluffò un'altra volta: "Cinque metri" disse con sicurezza. Nessuno tentò di misurare la fondatezza dell'asserzione. La paura di Carmelio era che ci fosse qualche italiano, specie qualche partigiano, che dagli argini potesse commettere qualche sconsideratezza. Ma la buona stella lo assisté.
Il Generale si staccò dai suoi Ufficiali e intrattenne a lungo ed assai cordialmente Carmelio, su argomenti di varia natura: sulla famiglia, sulle sue idee, sulle sue previsioni, ecc. Carmelio notò che, fuori della cerchia dei suoi Ufficiali, "Herr General" diventava un essere umano, pronto però a rivestire la maschera della durezza non appena rientrava fra i suoi.
Era notte fonda: erano passate ore e ore e più volte era sorto in Carmelio il desiderio di buttarsi giù dall'argine e di fuggire; il rischio però era assi grande ma soprattutto la sua fuga poteva compromettere la missione alla quale si era votato.
A un certo momento fu però chiaro che pure i tedeschi erano in attesa di ordini; infatti ritornarono verso la stazione ferroviaria di Fontaniva, scesero dalle macchine ed installarono una stazione radio. Giunse la conferma della caduta di Berlino e Carmelio affacciò al Generale
l'opportunità di trattare la resa con le truppe alleate. Il Generale si stizzì parecchio perché l'esortazione avveniva davanti agli altri.
Da poco era trascorsa la mezzanotte. La fermata a Fontaniva era durata circa mezz'ora: gli automezzi riattraversarono il centro di Fontaniva senza che nessuno desse segno di vita e, in un baleno, furono al crocevia di Porta Padova. Il Generale ora sembrava contento e chiese a Carmelio se gli era possibile procurare del cibo. Conz andò a suonare alla Signora Pia Fabris che gli dette del pane ed un buon salame. Cittadella era deserta ed al buio Carmelio ritornò solo sui suoi passi e consegnò ai tedeschi quanto aveva graziosamente ricevuto.
Essi entrarono nell'abitazione del Sig. Flaminio. Un attimo prima il Generale aveva stretto calorosamente la mano a Carmelio e lo aveva ringraziato di ogni cosa. Era spuntato anche Padre Nicolini che strinse Carmelio affettuosamente al petto e lo benedì. Forse egli aveva un mezzo rimorso nei riguardi di Carmelio. Ma cosa volete pretendere che uno sia Eroe in servizio permanente effettivo? Padre Oddone aveva dato la vera misura di sé a Bassano, poco prima, spalancando le porte del Paradiso a quella eletta schiera di Martiri impiccata dai nazifascisti.
La tensione nervosa che fino allora aveva così mirabilmente sostenuto il nostro Carmelio subì un crollo improvviso; un senso di sgomento lo pervase, misurò, come in un lampo, l'entità per pericolo che aveva corso, rientrò come un automa nell'interno della cerchia morata, si appoggiò all'arcata di un portico e si mise a piangere come un bambino.
Per tutta la notte la Divisione Corazzata tedesca transitò sferragliando per la circonvallazione puntando verso Nord, finché l'aurora, con le sue dita rosa, non salutò il giorno che Cittadella avrebbe potuto accogliere con esultanza le prime truppe americane.
Mai, mai nella sua più che settecenteraria storia, Cittadella ebbe la sua sorte legata ad un filo tanto sottile, e non si può non pensare che la Provvidenza abbia guidato e sorretto i passi e l'animo del protagonista,
Carmelio Conz, e di tutti quelli che intorno a lui avevano agito, sostenendo in modo egregio una parte che quasi sembrava predeterminata da un Superiore disegno.
Che Carmelio Conz non abbia chiesto nessun l'riconoscimento, non giustifica noi a non averglielo dato. Per merito quasi esclusivamente suo, egli ha salvato Cittadella da rovine e lutti di incalcolabile portata.
Lo sferragliare dei carri tedeschi era ancora nell'aria quando si seppe che gli americani erano giunti a Vicenza e che con rapita diversione puntavano su Fontaniva e che, a metà mattina, sarebbero stati a Cittadella. Le campane cominciarono a suonare, quasi rombando, tanto era l'impeto che era impresso alle corde. Una fiumana di gente si riversò nelle strade poco prima del tutto deserte, malgrado fosse domenica. Mons. Don Emilio Basso rivestì la cappa magna delle grandi occasioni, con tutto lo sfarzo che il suo titolo di Protonotario Apostolico comportava; un nugolo di chierichetti lo precedeva ed era attorniato dai sacerdoti di allora, compreso Padre Oddone Nicolini con la sua cotta bianca e la sua stola violacea.
D'un subito furono rimossi i grossi tronchi di platano e gli altri impedimenti a Porta Vicenza: non era pensabile che Mons. Basso potesse scavalcare la barricata.
Saranno state le 10.30 o le 11 che i carri armati americani fecero la loro comparsa. Il primo si fermò al crocevia di Porta Vicenza con il cannone rivolto in baso e messo in diagonale: faceva l'effetto di una proboscide di elefante.
La gente era eccitatissima, in netto contrasto con l'indifferenza degli americani evidentemente molto stanchi. Coi mezzi corazzati giunsero le fanterie; i soldati camminavano in due file ai margini della strada. Il tripudio era al massimo. Non ricordo se c'era la banda, forse sì.
Improvvisamente si sentirono dei boati di forza impressionante, di metallo che dirompeva, suonava e fischiava. Le torrette dei carri armati si
chiusero e, nello stesso tempo, i mezzi presero l'abbrivio per Riva del Macello senza badare alla gente che li attorniava. Fu un miracolo se qualcuno non venne stritolato. La festa era di colpo finita e si mutava in tragedia. In un lampo la folla si era dispersa in mezzo a grida di terrore: furono battuti molti record individuali di corsa.
Io mi diressi velocemente verso il centro e puntai su Porta Padova. Vi giunsi che il più era fatto. Quando arrivai oltre il ponte, le fanterie passavano in doppia fila verso Riva dall'Ospedale. Un carro armato era di traverso alla strada all'altezza di casa Fabris. Gli archi dei portici dal lato sinistro, di fronte alle Dorotee, erano smozzicati ed in equilibrio instabile. Nello spiazzo antistante alla deviazione per Tombolo era fermo un vecchio carro agricolo a quattro ruote e aveva un carico piuttosto strano: la carcassa tutta intera e completamente sventrata di una mucca che era stata presa in piena pancia da una cannonata. Le interiora erano schizzate sulla facciata del negozio Pozzato da una parte, e dall'altra, a guisa di macabro trofeo, ornavano la tabelle delle indicazioni stradali inserite nel muro delle Scuole delle Dorotee. Qui vi rimasero rinsecchite per molti anni finché l'edificio non fu abbattuto.
Cosa era accaduto? Mentre tutti erano a Porta Vicenza con gli americani, i tedeschi facevano la loro comparsa in Borgo Padova. Erano in molti con carriaggi, biciclette e bottino vario, opera di razzie compiute lungo la via, compresa la mucca aggiogata al carro.
Giunti a Borgo Padova e saputo o intuito che gli americani erano arrivati, duri a morire, avevano messo in postazione dei mortai e avevano cominciato a sparare. Coi primissimi tiri di aggiustamento avevano colpito a morte le due anziane sorelle Angela e Fiorina De Rossi (Pase) e ferite altre persone con le schegge che sfarfallavano molto lontano, anche in Borgo Bassano: mia madre, che era corsa a ripararsi, mi raccontò poi che una gallina delle nostre era stata colpita ed era morta.
Fu però una questione di attimi, perché il rapidissimo intervento dei carri armati americani fu decisivo ed i tedeschi furono tutti catturati. Ignoro se
ci furono perdite fra le truppe, però il Dr. Antonio Beriotto, da me interpellato in questi giorni, mi riferì di almeno una trentina di morti.
Uno degli ultimi atti della mia, chiamiamola così, gestione amministrativa, perché ero ancora in carica, fu quella di assegnare la mucca sventrata all'ospedale civile perché se ne sfruttasse la carne.
Gli americani puntarono verso Castelfranco che aveva chiesto immediatamente soccorso.
Il giorno 29 aprile fu la data di maggiori lutti. Come ebbi a ricordare, verso mezzogiorno cadde Gino Scalco. Trovarono ancora tragica morte Umberto Gelain, Alfonso Zonta, Luigi Marchetti, Tranquillo Gallio, Secondo Poggiola, Lino Flaminio, oltre alle due sorelle De Rossi. A San Giorgio in Brenta venne trucidato Nico D'Alvise assieme ad altri due partigiani di quella località, ed i miei parenti Sigg. Emilio e Giorgio Pozzato che altruisticamente e generosamente avevano dato ad essi ricovero mentre erano inseguiti dai tedeschi.
Circa ottanta civili, rastrellati fra Sant'Anna, Villa del Conte, San Martino di Lupari e Castello di Godego furono massacrati in quest'ultima località, in orribile ed inutile rappresaglia da reparti dell'esercito tedesco in fuga. Mentre a Cittadella si occupava il Municipio a Castelfranco si impiccavano ancora ostaggi.
Riporto qui di seguito il testo del Proclama, da me redatto, firmato dall'ormai intronizzato Sindaco con tutti i crismi Sig. Camillo Carcereri.
Il documento porta impresso il famoso timbro purgato:
Cittadini,
l'ora grande attesa per anni è finalmente giunta. A furore di popolo sono state spezzate le catene del servaggio ed una giusta legge è tornata a regolare la nostra vita a venire. Inchiniamo le nostre bandiere dinanzi ai nostri Eroi ed ai nostri gloriosi Caduti, che con il loro sangue ci hanno riscattato. Onoreremo con opere fattive la loro memoria.
Rendiamo l'omaggio più fervido ai Patrioti che hanno dato tutto se stessi per la giusta causa e per i quali la nostra riconoscenza dovrà essere concreta. Alle truppe alleate che hanno consolidato la nostra vittoria il saluto cordialissimo del benvenuto. Ci proponiamo di fare tutto per il popolo nel nome del popolo.
Viva l'Italia libera! Cittadella 29 Aprile 1945
Il Sindaco Camillo Carcererei
Questo mio scritto è soprattutto per rendere omaggio a Carmelio Conz, Padre Oddone Nicolini e Angelo Pasquale che salvarono Cittadella ed i suoi abitanti in quel fatale 28 Aprile 1945.
Cittadella 25 Aprile 1969
Dr. Guerrino Viotto